Frank - Racconto
«Dove sono?» domandò Frank.
Attorno a sé una colonna di colori vorticanti. Al centro del tornado un letto, il letto su cui si era svegliato e da cui si era appena issato in piedi. Un farfuglìo squarciò il tornado, portandolo a rallentare fino a dissolversi, lasciando al proprio posto una stanza azzurra. Il farfuglìo divenne voce e la voce divenne parole, parole ignote.
«Dove sono?» chiese ancora Frank, «chi parla? Non capisco!».
Il pomello dell’unica porta presente luccicava di luce propria, un vero specchio per allodole. Frank posò la mano sul pomello, avvertendo il rumore del proprio sangue scorrere attraverso le dita, andata e ritorno. La mano si mosse all’unisono del respiro, aprendo l’ignoto. L’aria si coagulò attorno a Frank, risucchiandolo e costringendolo a varcare la soglia con delicata prepotenza. Lo sguardo si trovò a vagare tra le due poltroncine di pelle al centro della stanza, separate da un’imponente scrivania in legno massiccio. L’ambiente si fece più cupo, la circolare parete azzurra avvolgeva interamente la scena colorandosi di un azzurro più carico, pesante. La porta alle spalle non sussisteva più.
«Si segga, la prego».
Un uomo sedeva su una delle poltroncine.
«Chi è lei? Non c’era prima! Che cos’è questo posto? Non ci sono mai stato prima, dov’è l’uscita? Dove sono tutti quanti? C’erano più voci nell’altra stanza!».
Frank poteva udire distintamente il rimbombo del proprio battito cardiaco accelerato, proveniva chiaramente dal centro del proprio cervello, come un martello capace di battere a trecentosessanta gradi dal profondo della testa.
«Si segga, la prego. E si calmi. Beva un tè». Rispose l’uomo, senza rispondere pacatamente a nessuna domanda.
Lo sguardo di Frank migrò dall’uomo al braccio dello stesso, leggermente proteso in direzione della scrivania. Una tazza fumante stava ora su di essa.
Frank ubbidì.
«Chi è lei? E perché sono qui?».
L’uomo accennò uno sbieco sorriso, scuotendo il capo.
«Insomma mi risponda per la miseria!».
«Si rilassi. Beva il suo tè. perché la vera domanda, è se sa chi è lei, non io», l’uomo piegò ulteriormente il volto.
«Lei è pazzo» aggiunse l’uomo.
«Chi sono io?», Frank si premette nella poltroncina, aggrappandosi ai braccioli.
«Il pazzo è lei!», riprese, «io sono Frank Stevens, ed esigo delle spiegazioni, fatemi uscire di qui, subito!».
L’uomo non si scompose, indicando nuovamente la scrivania.
«Ecco, beva, si rilassi. Lei è pazzo».
Frank si accigliò, infossando il collo fra le spalle.
«Non c’è nessun tè!», la tazzina era sparita.
«Guardi meglio», rispose l’uomo, «lei è pazzo. Si segga, e beva il suo tè. Si spicci o faremo tardi».
«Sono già seduto!» gridò Frank.
«No, caro Frank, lei non lo è. Lei è pazzo. Si rilassi».
«Signor Stevens! Non osi più chiamarmi Frank, se c’è un pazzo qui è lei».
«No, Frank» ribatté l’uomo congiungendo le mani, i gomiti puntellati sulla scrivania, «lei non è il signor Stevens, lei è pazzo. Adesso sia gentile, si segga e prenda il suo tè».
Frank si sentì improvvisamente pesante, le gambe di granito, la tazzina sul tavolo ora incredibilmente vivida, di dimensione ragguardevole, rassomigliante più ad un pentolone ora che ad una tazzina.
«Perché non si rilassa, Frank?» propose amabilmente l’uomo.
Frank gridò a squarciagola, correndo lungo le pareti della stanza cilindrica. Le gambe sempre più rigide ad ogni passo. L’eco del proprio grido sempre più un farfuglìo familiare.
«Si calmi, Frank, venga a riposarsi. La zuppa si fredda» fu l’invito dell’uomo, indicando la pignatta sulla scrivania.
Esausto, Frank accolse l’invito.
«Stevens. Stevens» ripeteva faticosamente, fra gli ansimi della fatica appena compiuta.
«No Frank, no. Lei è pazzo. Si rilassi».
Appena si rimise alla poltroncina, le grandi fatiche compiute parvero non aver mai avuto luogo. Il respiro si placò, il granito si ritrasformò in semplici gambe.
«Si serva, la prego. Lei è pazzo».
L’uomo osservava Frank da dietro la scrivania con fare curioso. La voce amabile, le dita nodose sempre intrecciate, il maglione a rombi tremolava.
«Prego» invitò nuovamente.
Frank annuì meccanicamente, avvicinando la pignatta a sé.
«Quante zollette?» domandò l’uomo.
«Come?» chiese confuso Frank.
«Quante zollette di zucchero per la sua minestra, lei è pazzo».
«Oh, sì certo» rispose Frank, «due, grazie».
«Ecco a lei».
«Molto gentile».
«Si figuri, lei è pazzo», concluse l’uomo.
Frank bevve la minestra da una tazzina sempre più piccola, ad ogni sorsata perdeva una taglia, ad ogni occhiata confusa mutava e si riduceva, mantenendo tuttavia invariato il contenuto nella misura iniziale.
«Ma che sta facendo?» domandò l’uomo in tono paterno, «lei è pazzo. si è rovesciato tutto il tè sulle ginocchia».
«Minestra» farfugliò Frank.
«Come dice? Lei è pazzo».
«Era una minestra, sono sicuro» rispose Frank.
«No Frank, non è mai stata una minestra».
«Signor Stevens, la prego» farfugliò ancora, udendo un eco dal soffitto molto simile al farfugliò precedente.
«Non c’è nessun signor Stevens. Lei è pazzo. Così come non c’è mai stata nessuna minestra, ma solo un tè».
«Dice davvero? Ma questa cos’è allora» la voce si smorzò in gola a Frank.
«Questa cosa, signor Stevens? Lei è pazzo, si rilassi. Beva un tè».
«Lo sto facendo, è qui. Era qui», Frank si toccava le gambe, asciutte.
L’uomo scosse il capo. In volto un accondiscendente sorriso sbieco.
«Non c’è mai stato nessun tè, signor Stevens. Lei è pazzo».
«Ah no?» sussurrò debolmente Frank, le membra stanche, il corpo abbandonato mollemente sulla poltroncina.
«No Frank, lei è pazzo. non c’è nessun tè, esattamente come non c’è mai stato nessun signor Stevens. Ora si rilassi. Lei è pazzo. mi segue, signor Stevens?». Lo sguardo dell’uomo trafisse quello di Frank, trafiggendogli come uno spillone il cervello dall’interno.
«Io… chi è Stevens?».
«Non ne ho idea» rispose l’uomo.
«Io sono Frank…».
«Sì Frank. Lei è pazzo».
«…perché sono pazzo».
Il mondo si spense in una luce accecante.
Tutto divenne bianco, le pareti bianche, la stanza bianca, i rombi sul maglione bianchi, il camice di Frank bianco, il lettino su cui giaceva stordito bianco anch’esso.
«Direi possa anche andare. Portatelo via» disse l’uomo.
«Sì, Dottor Zelmann» risposero all’unisono due assistenti.
«Sembra sconvolto a puntino» disse un altro uomo avvicinandosi.
«Non capita tutti i giorni di svegliarsi nell’inferno della propria mente, Dottor Wolkwitz» rispose il Dottor Zelmann.
«Già» rispose il Dottor Wolkwitz, «specie con uno psico attivo d’eccezione come voi, a far da Caronte».
«Vi ringrazio Dottor Wolkwitz, troppo gentile».
Il dottor Wolkwitz si ciondolò soddisfatto, accendendosi la pipa.
«Frank, sono Frank. Dove mi trovo?» domandò Frank, mentre veniva issato in piedi dagli assistenti.
I due dottori sorrisero.
«Sei a casa adesso, Frank» disse il Dottor Zelmann.
«Sì Frank, non dovrai più preoccuparti di tutte quelle idee rivoluzionarie che andavi millantando in giro» aggiunse il Dottor Wolkwitz, «oh, ma tu nemmeno te le ricordi ora, che sbadato che sono» concluse sorridendo.
«E poi sarei io Caronte, voi vi divertite proprio a infierire, Dottor Wolkwitz» disse il dottor Zelmann.
«Che male c’è? Il direttivo è al sicuro, e ne cavo fuori una simpatica risata. Ora scusatemi, altri pazzi mi attendono».
«Sono Frank, sono Frank, sono Frank!» l’eco delle grida di Frank, mentre veniva trascinato via.