Il pomello - Racconto
Ricordo come fosse ieri, fu durante il dodicesimo anno del secolo che mi giunse un invito a cui mi era impossibile rifiutare. Il laconico messaggio recitava solamente “Questa volta ci siamo”, in allegato un biglietto d’imbarco con su scritto luogo, data e ora di partenza. In apparenza nulla, ma la notizia mi arrivava dal Conte Woodman, mio vecchio compagno di ricerche della British Columbia, sapevo cosa mi aspettasse.
O almeno lo credevo.
***
«Ma dove cazzo è quel negro di merda?», ricordo furono le prime parole del Conte appena sbarcammo a Casablanca.
«Calmati Woodman, ecco Aziz» risposi, indicando il giovane poco distante da noi. Aziz era l’ultimo assistente del Conte, ebbi già modo di incontrarlo brevemente in passato. Un giovane taciturno e cieco da un occhio; un tipo scivoloso, oserei dire. Nonostante i modi rudi nel nominarlo, il Conte si fidava di Aziz, per tanto non obiettai quando ci fece da guida fino ad un remoto grumo di baracche sperduto fra le montagne del Marocco. Un luogo così insulso e disperso da non comparire su nessuna carta e non avere neppure un nome.
Confesso di aver dubitato appena arrivammo, tutto poteva sembrare fuorché l’accesso alle mitologiche rovine di Skernak, di cui solo alcune distorte leggende orali conservavano ancora il nome come confuso ricordo. Sembrava deserto, eppure notai dei movimenti tra le baracche coperte di stracci ma non vidi nessuno fino a quando Aziz si fermò, indicandoci un crepaccio fra una casa di sassi intonacati e un’altra ricavata dalla montagna stessa. Più una grotta che una casa, fu da lì che fece capolino un vecchio, quasi interamente coperto alla maniera dei tuareg. Notai delle ombre verdastre sulle sue mani e fra le rughe sotto gli occhi. Non disse una parola, rimase ad osservarci con la stessa curiosità con cui un uomo osserva delle formiche per terra.
«Allora, che cazzo aspetti, un invito da parte della regina? Muovi il culo ed entra, negro! Hai portato le torce?» trasalii, riportato bruscamente allo scopo del viaggio dalla ruvida voce di Woodman.
Aziz in testa, Woodman al centro ed io a chiudere la fila. Strisciammo di traverso lungo la spaccatura nella roccia, spingendoci sempre più nel cuore della montagna. Sentivo la roccia premuta su ogni parte del mio corpo, in più di un’occasione temetti di essere incastrato e di non riuscire più a spostarmi, avevo la sensazione che la montagna stessa volesse bloccarci e stritolarci. Dimenandomi per divincolarmi da quella morsa ebbi anche il rapido sentore di una sottilissima striscia di luce sopra la mia testa.
Ci vollero non meno di seicento metri prima che trovassimo spazio per poterci muovere normalmente. Trovai insolitamente areata la caverna. Illuminammo l’area, rendendoci conto di essere su di una strada lastricata, costeggiata dai frammenti di antiche decorazioni, statue di persone parevano, ma dai lineamenti insolitamente increspati.
La strada era in discesa, non ho idea quanto fosse lunga, ricordo solo le pareti. Era come se fossero arrivate dopo la strada, ed in alto scorgemmo davvero alcune fessure dove filtravano bricioli di luce.
«Il vecchio ha detto di andare in questo», Aziz indicava un cunicolo laterale. Solo allora mi resi conto di come ce ne fossero a decine, forse centinaia lungo tutta la via. La maggior parte era sommersa dalla roccia, altri erano percorribili acquattandosi come animali. Eravamo al centro della città.
«Bravo Aziz!» il conte sprizzava gioia in ogni movimento, non lo avevo mai visto così felice da quando lo conoscevo. In volto aveva stampato un sorriso del tutto nuovo, ebbro di quella follia che era quel posto infernale, noncurante come un bambino.
Un brivido mi gelò l’anima. un movimento nell’ombra mi passò alla periferia dello sguardo. Mi voltai di scatto, in tempo solo per udire un fruscio alle mie spalle, provenire da un altro cunicolo ipotizzai. Con il cuore a mille mi incurvai fino quasi a dover gattonare, accodandomi al Conte e ad Aziz. Vidi ulteriori diramazioni ma le ignorammo tutte. Fummo costretti a gattonare sul serio alla fine, e anche strisciare a terra. Sotto il ventre il liscio lastricato finemente lavorato, sulla schiena la montagna pressante, ruvida e tenacemente decisa a fermare il nostro arrancare. Vidi qualcosa.
«Woodman, Woodman! Fermati!».
«Che vuoi? Siamo quasi arrivati!» ringhiò furente. Non lo riconoscevo.
«Aziz?» domandai timidamente.
«Quel negro? Guardalo è lì davanti! Ma che cazzo di problema hai? E tu negro sbrigati!».
A quel comando perentorio scorsi nuovamente la figura, ma nello sgambettare per accelerare scorsi un piede, scalzo, ma più simile a corteccia che a carne. Aziz non era scalzo quando entrammo. Mi convinsi fosse solo il caldo e la suggestione, tacqui e avanzai.
La roccia si fece nuovamente più alta, permettendoci di alzarci, Woodman stava quasi correndo, faticavo a stargli dietro. Aziz non c’era.
Del conte vedevo ormai solo la torcia in lontananza. Io ero immobilizzato di fronte a degli stipiti di un materiale a me sconosciuto. Nero come l’abisso di roccia in cui ci trovavamo, le scanalature erano liscissime e creavano complesse onde e intrecci simili a radici. Qualunque cosa fosse, aveva resistito alla montagna stessa. Solo la parte più alta del portale era stata inglobata dalla pietra, non c’era modo di sapere quale fosse stata l’altezza della sala in origine, tutto il soffitto era soppiantato dalla montagna. Nessun detrito a terra, così come nelle strade.
Varcai finalmente la soglia, con il cuore in gola camminai fino al centro. Ad ogni passo udivo degli scricchiolii lontani, come qualcosa di antico. Intravidi la torcia del conte, corsi fino a raggiungerlo. Ciò che reputavo il centro della sala, mi resi presto conto esser solo un’anticamera. Davanti a noi un colonnato cingeva circolarmente un podio, tutto era dello stesso materiale dell’ingresso. Dietro il colonnato, lo spazio si estendeva a perdita d’occhio nonostante le torce.
«Ma che cazzo è questa merda?». L’insana gioia di Woodman, aveva lasciato posto ad una altrettanta malsana ira.
«Dove cazzo sta il mio tesoro? E quel fottuto negro di Aziz dove s’è cacciato? Morisse male quel merdoso!».
«Aspetta Woodman» cercai di placarlo, avvicinandomi al piedistallo, «qui c’è qualcosa».
«Che diavolo è quella cosa?».
«Non saprei» osservavo affascinato l’oggetto. La mia indole da ricercatore aveva preso il sopravvento, dimenticando i timori. Dava l’idea di qualcosa di assolutamente diverso rispetto il materiale del podio, tuttavia la base sembrava metterne radici in profondità. Poco sopra la base si stringeva sottilissimo, schiudendosi poi in una boccia, una sorta di pomolo da porta.
«Sembra» esitai, «sembra un pomello».
«Un pomello?» ringhiò stupito Woodman, «che stai dicendo? Ma che cazzo è un pomello?».
Mi voltai confuso, giusto in tempo per venire travolto e spinto via dal Conte prima che io potessi provare a toccare il pomello.
Osservai sconvolto il Conte avvolgere la mano attorno al pomello, il quale pulsò rapidamente di una misteriosa vita verdognola, corrugandosi brevemente.
«Pomello eh, volevate rifilarmi un pomello! Ma cosa cazzo è questo pomello!» le urla furibonde del Conte.
Senza distogliere gli occhi da Woodman, indietreggiai il più silenziosamente possibile. Qualcosa dentro di me, la parte più primordiale della mia umanità, mi gridava di fuggire, mentre la parte più moderna da ricercatore mi imponeva di osservare.
«Aziz! Maledetto!».
Vidi il sorriso del Conte farsi terribile, la pelle deformata, le rughe attorno al volto accentuarsi lignee, sulle mani crescere sprazzi verdi e grigiastri del tutto simili a licheni. La postura rigida, la schiena arcuarsi in avanti, le braccia rigide sollevarsi e abbattersi con violenza sul podio. Il pomello aveva cambiato completamente il Conte, o forse risvegliato altro già presente in lui.
Tremori e scricchiolii invasero l’ambiente, la parte primordiale vinse la lotta e corsi, corsi furioso senza pensare più a nulla. Mi voltai solo quando udii altre voci. Parlavano in una lingua incomprensibile, vidi altre persone simili al vecchio del villaggio avvicinarsi al Conte, portando di peso Aziz. Woodman strinse le nodose mani al volto di Aziz, facendogli esplodere gli occhi fuori dal volto. A quella vista persi ogni controllo. Un boato durante la mia folle corsa scosse la montagna, mi resi presto conto come non fosse stata solo un’impressione: le montagne si stavano davvero avvicinando e scontrando, la Terra stessa si era rivoltata ai propri primi abitanti senzienti, cercando di seppellirli per sempre.
Tornai in patria. Non so nemmeno io come ma fui più veloce della montagna. Non sentii più parlare del Conte Woodman. Solo ora, dopo anni, scrivo qui le mie memorie, affinché questo male venga un giorno ricordato.
Fissandomi allo specchio, ripenso a ciò che ho visto, lieto che non sia uscito nulla di inumano da quella roccia, contento di aver sepolto il passato sorrido rigidamente alla mia immagine riflessa, contento del mondo che verrà, con quegli strani aloni verdastri sotto i miei occhi…